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Sicurezza possibile? Tradizione ed Etica
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Proponiamo un articolo di Nicola Tondini e Alessadro Baù, pubblicato in primis sull’Annuario Accademico del CAAI del 2019 e poi riproposto sul GognaBlog il 2 Gennaio 2020.
In aggiunta, qui Nicola Tondini aggiorna lo scritto con alcuni contributi chiarificatori, riportati in corsivo.
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L’articolo è sicuramente tecnico/accademico. Era stato chiesto a me e Alessandro Baù di partecipare a un convegno del CAAI e preparare una relazione sul tema "Etica, sicurezza e tradizione", per stimolare il successivo dibattito. Se si guarda a quanto sviluppato nel nostro intervento, il titolo corretto, rispetto a quanto precedentemente riportato, sarebbe duqnue: "Sicurezza possibile? Tradizione ed Etica".
Preciso subito cosa intendo per Etica: un comportamento coerente da parte dell'arrampicatore/alpinista tra quello che fa e quello che dice di fare, unito al rispetto da parte di un apritore/chiodatore della storia che c'è stata su quella parete alpina/falesia.
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SICUREZZA POSSIBILE? TRADIZIONE ED ETICA
Al giorno d’oggi rimane fondamentale per l’etica, la sicurezza e la tradizione dell’attività arrampicatoria e alpinistica avere chiarezza nella comunicazione e tenere in considerazione la storia di una falesia o di una parete.
Chiarezza nella comunicazione
Chi va ad arrampicare in una falesia o a ripetere una via deve sapere esattamente cosa lo aspetta. Parlando di falesia, sapere se sta andando in una falesia controllata e manutenuta regolarmente o se sta andando in una falesia in cui dovrà valutare lui i rischi ambientali e i problemi di sicurezza legati al livello di protezione dei monotiri. Parlando di multipitch, sapere se sta andando su una parete con pochi rischi ambientali, con un facile accesso e rientro e su un itinerario ben protetto oppure se sta andando su una parete con molti rischi ambientali, accesso e/o rientro complesso e su itinerari con tratti non proteggibili e molto pericolosi in caso di caduta.
La necessità di chiarezza, in questo momento storico, è fondamentale per due motivi:
1- Diverse tipologie di situazione ambientale.
50 anni fa un appassionato di arrampicata poteva praticamente fare solo via alpinistiche e al massimo frequentare per allenarsi delle falesie attrezzate in modo più sistematico che una via multipitch. Al giorno d’oggi, per fare solo alcuni esempi, un appassionato può arrampicare:
- In strutture indoor boulder
- In strutture indoor con la corda
- Su massi
- In falesie progettata e costantemente manutenute a scopo turistico dalle amministrazioni locali
- In falesie storiche da sempre frequentate e in qualche modo “gestite”
- In falesie di facile accesso e con rischi ambientali molto contenuti, ma appena chiodate
- In falesie con rischi ambientali presenti, arroccate su cengie o alla base di alte pareti
- Su vie multipitch plasir chiodate sistematicamente a fix ogni metro (o al massimo 2)
- Su vie multipitch con presenza di fix, ma in cui serve saper utilizzare friends e nuts
- Su vie multipitch con presenza di fix, ma anche con lunghi tratti non proteggibili e pericolosi
- Su vie multipitch tradizionali (senza fix) ben protette
- Su vie multipitch tradizionali tutte da proteggere
- Su vie multipitch tradizionali con tratti non proteggibili e pericolosi
Quello sopra è solo un piccolo elenco delle centinaia di combinazioni che si possono trovare. Basta provare a suddividere le 6 tipologie di vie multipitch descritte, ciascuno in 7 livelli di rischi ambientali
2- Percorso formativo di un arrampicatore.
L’arrampicata sportiva, considerata per molto tempo un metodo di allenamento per l’alpinismo, è diventata oggi una specialità fine a se stessa, con moltissimi praticanti di tutte le età. Si è passati quindi da un’attività praticata da pochi, considerata sport estremo ed elitario, ad un’attività di massa praticata da molti. 30 anni fa chi frequentava le falesie arrivava per la maggior parte dall’alpinismo o comunque era conscio di praticare un’attività in cui c’erano una serie di pericoli da valutare. Oggi molti dei praticanti imparano nelle palestre indoor e sono abituati a determinati standard di protezione e quindi hanno un alto livello di affidamento rispetto all’attrezzatura di un sito naturale per l’arrampicata «sportiva» (ovvero danno per scontato che tutto sia ben posizionato e controllato). In Francia da tempo le ”falesie” (pareti di bassa quota) vengono attrezzate da professionisti che si sono imposti degli standard di attrezzatura per garantire una frequentazione da parte degli arrampicatori con un rischio residuo basso. Anche in Italia cominciano ad esserci falesie attrezzate e gestite secondo determinati canoni (es. outdoor park ad Arco) per rispondere a questa nuova tipologia di frequentatori e turisti.
Fatta questa analisi della situazione odierna, nasce la necessità, già partendo dalle falesie, di classificare i siti naturali per l’arrampicata in base a:
- Livello di rischio ambientale presente
- Livello di protezione e controllo degli itinerari presente
Rischio ambientale di un monotiro è molto diverso se arrampico:
- Su blocchi in mezzo ad un prato, su una falesia di sommità (senza niente sopra), su una falesia di versante, alla base di una parete più grande, in mezzo ad una parete
- Su una falesia raggiungibile in 30’’ dal parcheggio attraversando un prato, rispetto alla necessità di dover fare passaggi alpinistici per raggiungerla (ferrata, tratti di I°-II° grado, cenge esposte)
- Su una falesia con sotto un prato, piuttosto che su una falesia sospesa a metà di una parete o pendio in cui si rimane appesi ad un cavo metallico per fare sicura
- In un luogo non raggiungibile dal soccorso, piuttosto che ad un luogo in cui può arrivare un’ambulanza
Ugualmente il livello di protezione del sito per l’arrampicata può avere varie sfumature:
- Struttura artificiale (INDOOR o outdoor), che rispetta una precisa normativa sulla distanza delle protezioni, sui controlli periodici e sui dimensionamenti
- Protezioni certificate, correttamente dimensionate, posizionate alla giusta distanza e nel corretto modo e periodicamente manutenute (AZZURRO - CE)
- Protezioni certificate, correttamente dimensionate, posizionate alla giusta distanza e nel corretto modo, ma senza un controllo periodico nel tempo (AZZURRO)
- Protezioni non certificate, ma correttamente dimensionate, posizionate alla giusta distanza e nel corretto modo, e senza un controllo periodico nel tempo (VERDE)
- Protezioni non certificate o non correttamente dimensionate o non posizionate in modo corretto o a distanza pericolosa (GIALLO)
- Protezioni con più caratteristiche fuori controllo (ROSSO)
- Non presenza sistematica di tasselli meccanici o fittoni resinati (ALP)
La figura sotto riportata può dare un’indicazione della varietà di situazioni che si possono riscontrare.
Nella classe A rientrano i siti naturali per l’arrampicata su monotiro:
- Con un rischio ambientale basso (necessaria relazione geologica)
- Con livello di protezione alto dato da: protezioni certificate, correttamente dimensionate, posizionate alla giusta distanza e nel corretto modo e periodicamente manutenute (necessaria relazione progettista)
Nella classe B rientrano tutte le altre tipologie di falesie.
Per quanto riguarda i monotiri parzialmente o totalemente TRAD e tutti le tipologie di Multipich, ciascun itinerario può essere classificato con l’unione delle due scale, presentate 15-16 anni fa da Tondini, Oviglie e Svab:
- S 1,2,3,4,5,6 oppure R 1,2,3,4,5,6 oppure RS 1,2,3,4,5,6 per il livello di protezione
- I, II, III, IV, V, VI, VII per i rischi ambientali
Storia di una falesia o di una parete
Anche in questo caso è necessario distinguere le due situazioni: monotiri (falesia) e multipitch.
Nella riattrezzatura di una falesia bisogna per prima cosa capire se si vuole renderla di classe A o meno (ammesso che i rischi ambientali consentano tale scelta). Se si fa questa scelta, è necessario comunque tenere conto della sua storia e della logica utilizzata dai chiodatori originali, evitando il più possibile di snaturarla, qualora ciò non comprometta la sicurezza dell’itinerario. A tal riguardo è auspicabile il coinvolgimento dei vecchi chiodatori e frequentatori abituali per la condivisione delle scelte progettuali.
Ancora più, nel caso di falesie che rientrano nella classe B, dovrebbe essere sempre tenuta da conto la logica utilizzata dai primi chiodatori.
Se ora ci spostiamo sulle vie multipitch, credo che l’apertura di nuovi itinerari e l’eventuale manutenzione di quelli storici necessitino di un rispetto totale della storia di una parete e di una via.
La manutenzione di itinerari storici e molto frequentati è sicuramente auspicabile, ma questo non necessita una snaturalizzazione degli stessi. Scelte di questo genere dovrebbero coinvolgere una comunità molto ampia di alpinistici. Una itinerario classico a protezioni tradizionali, ad esempio, può rimanere molto frequentato restando a protezioni tradizionali, se correttamente descritto. Spesso si vorrebbe far diventare tutti gli itinerari classici “plasir”, ma una tale scelta non fa crescere la cultura alpinistica e non insegna nulla: se si facesse così, infatti, ci sarebbe solo in circolazione o vie “plasir” o vie fortemente alpinistiche, senza una via di mezzo, che permetta una crescita costante del praticante.
Per quanto riguarda l’apertura di nuovi itinerari la parola d’ordine è il rispetto di chi è venuto prima di noi. Per fare ciò è indispensabile:
- conoscere gli itinerari che sono stati aperti prima
- capire come lo stile di chiodatura che si vuole utilizzare possa impattare rispetto a tali itinerari (vicinanza e incrocio con vie precedentemente aperte)
- valutare se lo stile di chiodatura utilizzato valorizzi o meno la tipologia di roccia su cui si apre la via.
Per spiegare meglio questo ultimo punto è necessario sottolineare, che la bellezza del mondo “arrampicata” sta anche nella varietà di stili: fessure di granito scalabili anche solo trad; placche di granito proteggibili solo a fix; pareti di calcare compattissimo proteggibili solo a fix; pareti di dolomia proteggibili a chiodi; sono solo alcuni esempi di quello che la roccia può offrire all’arrampicatore e negli hanno ha definito degli stili legati a delle aree geografiche. Quello che si può fare tradizionalmente in Dolomiti (uso dei chiodi a lama) non si può fare in modo sistematico nelle gole del Verdon; per contro in Dolomiti non si potrebbe utilizzare come unico stile, quello del clean climbing utilizzabile ad Indian Crack. MA gli esempi sarebbero a riguardo infiniti.
Nicola Tondini
Alessandro Baù
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Cercherò ora di entrare in modo meno accademico sull'argomento, per dipanare dubbi sull'interpretazione dello stesso: il rischio infatti di arrivare a sintetizzare questo articolo con l'idea che vogliamo standardizzare e appiattire l'andare in montagna e ad arrampicare è alto, ma l'intento è esattamente l'opposto.
Come forse qualcuno sa, io e il mio collega Alessandro (come altri alpinisti), nel nostro fare alpinismo su quello che andiamo ad affrontare cerchiamo volutamente l'incognita maggiore possibile. Ripetiamo spesso vie "irripetute" e con pochissime informazioni. Apriamo itinerari nuovi usando spesso meno protezioni di quelle utilizzate da chi, su quelle pareti, è passato prima di noi e di certo non vorrei che quanto facciamo venisse standardizzato.
Io spesso, anche nel lavoro di Guida Alpina, vado a scovare con i clienti/allievi itinerari pressoché abbandonati. Mi piace, mi dà il senso della libertà e mi permette di accompagnare le persone che vengono con me in un percorso tutto particolare, che li addentra nel mondo dell'alpinismo in modo diverso e altrettanto affascinante, come quello di ripercorrere gli itinerari storici e classici dell'alpinismo (che vorrei rimanessero tali).
Ogni tanto mi capita, però, di andare a ripetere con clienti/allievi vie che vanno di "moda". Vie che rimbalzano nei social, che tutti tendono a consigliare (magari perché le difficoltà sono contenute e morbide come gradazione) e mi domando: ma se qui ci viene uno impreparato, come va a finire? Io generalmente, se trovo roccia su cui serve prestare attenzione, se serve saper integrare le protezioni, se ci sono rischi oggettivi da saper valutare, mi diverto e anzi sono più contento. Però non posso chiudere gli occhi davanti alla realtà, che vedo intorno a me.
Gestendo da 11 anni un centro di arrampicata indoor (King Rock), sento come le voci corrono nelle sale. Spesso mi trovo a parlare con qualcuno, che so avere poca esperienza in fatto di alpinismo, che mi dice: "Sai, nel weekend vado a provare la tal via... l'ha fatta il mio amico e dice che è bella, gradi soft e sicura".
Di fronte al termine "sicura" impallidisco. Cos'è sicuro?
Magari per lo standard di un alpinista con esperienza, che sa valutare roccia, protezioni, rischi oggettivi, una via può essere più "sicura" di un'altra. Ma non potrà mai esserlo a prescindere dal proprio percorso conoscitivo e di crescita in ambito alpinistico. E non vorrei mai che una via "multipitch" posso diventare "sicura" in modo oggettivo. Quindi lungi da me voler classificare, catalogare questo terreno.
Chiederei solo a chi ha più esperienza in questo ambito di usare termini appropriati, per comunicare in modo corretto. Non parlare di vie "multipitch sicure" e far comprendere agli arrampicatori sportivi, che c'è un abisso tra la falesia e le multipitch.
Le salite multipitch (di qualunque stile siano: chiodatura a fix, corti o lunghi, trad, mista, ecc) sono sicuramente (non ditelo a me, appunto) un terreno affascinante, ma che necessita preparazione e conoscenze completamente diverse dall’arrampicata sportiva.
Ovvio mi direte. Io, però, vedendo come affrontano queste salite molte cordate, mi faccio molte domande.
E così entro nel tema falesie. Nell’articolo, alla fine, si propongono solo 2 categorie per le falesie. O meglio: proponevamo una distinzione macro fra:
- multipitch e monotiri trad: tutto ciò che non è falesia “sportiva”
- falesie libere, senza controlli “ufficiali”: quelle su cui spesso arrampichiamo
- falesie “controllate”: gestite spesso da amministrazioni comunali (in tal caso si può arrivare alla certificazione, come in alcune di Arco) o che comunque, per tradizione, hanno una costante manutenzione più o meno volontaria.
Quindi le falesie avrebbero solo due categorie: quelle senza alcuno standard imposto e quelle che per volontà di qualcuno/di una comunità vengono gestite e quindi dovranno rispettare degli standard (pur rimanendo falesie in ambiti naturali e quindi comunque non assimilabili a una struttura indoor).
Faccio un esempio concreto: nei nostri corsi di arrampicata sportiva (XMountain Guide Alpine), prevediamo un certo numero di lezioni indoor (King Rock) e a seguire delle lezioni outdoor.
Già dalle lezioni indoor insegniamo che non bisogna mai spegnere il cervello, nemmeno quando si è in una sala indoor: il rischio infatti di farsi male è alto e ne ho viste le conseguenze (anche su persone navigate).
Quando poi portiamo gli allievi ad arrampicare su roccia, mettiamo subito i puntini sulle “i”. Il primo puntino è che siamo in ambiente naturale. Che anche se torneranno esattamente sugli stessi itinerari, nessuno potrà garantire loro che le condizioni non siano cambiate (roccia, protezioni, manomissioni).
Nelle prime uscite, ad esempio, andiamo quasi sempre nella falesia di Alcenago, falesia non certificata e non gestita da nessuno ufficialmente, dove però da sempre alcuni “santi” chiodatori (a Verona uno in particolare, il Beppo, che non finiremo mai di ringraziare, e alcuni altri, guide e non guide) danno un occhio, sistemano e ri-chiodano quando serve.
Subito specifichiamo agli allievi, che la situazione che hanno davanti agli occhi non è uno standard delle falesie. Gli dico che quando cominceranno a girare ne troveranno sia di attrezzate così o ancora meglio (vedi alcune di Arco), sia altre in cui dovranno imparare a valutare una serie di rischi oltre a quelli che ho esposto loro da subito.
Ad esempio: la potenziale pericolosità in caso di caduta in funzione della distanza delle protezioni, la bontà degli ancoraggi (ci sono ancora falesie frequentate, con itinerari obsoleti e dimenticati, con spit messi a mano più di 30 anni fa), i possibili pericoli oggettivi sulla via (roccia in parte friabile) o intorno ad essa (pilastri incombenti, pendii più o meno scoscesi sopra la falesia, essere o meno alla base di una parete più alta, passaggio di animali sopra, ecc), l’attenzione particolare da porre alle protezioni in falesie vicino al mare; ecc.
Rischi che ad Alcenago in molti settori non ci sono, ma altrove ci potranno essere.
A me, ovviamente tutto questo è chiarissimo, ma ai tanti che si avvicinano a questo sport, che informazioni arrivano?
Io e i miei colleghi facciamo costantemente questo lavoro di comunicazione e se lo facessimo tutti e ci aiutassimo a vicenda sarebbe utile.
Se si parlasse un linguaggio comune, si eviterà in futuro, che chi non ne sa nulla decida di considerare tutte e tre le categorie alla stessa stregua e voglia imporre standard su tutto. Il nostro intento, nell’articolo e nel successivo dibattito è stato dire: se ci sono da imporre standard, imponiamolo solo a certi siti. Negli altri lasciamo libertà di azione. Facciamo capire che i terreni per l’arrampicata sono tre:
- falesie gestiste per tradizione da CAI, enti parco, semplici arrampicatori o falesie prese in gestione da amministrazioni comunali (con certificazione): saranno sempre poche rispetto al totale di un territorio (a Verona sono potenzialmente da 3 a 5 su 40)
- falesie libere, senza controllo dove ciascuno ha la libertà di fare quello che vuole o l’utilizzatore sa che si può aspettare qualsiasi situazione (stile, materiali, pericolosità logistica, ecc): saranno sempre la maggior parte
- il mondo delle multipitch: dal trand più spinto al plasir. Ma sempre di terreno d’avventura si parla.
Nota finale: anche in falesie certificate, questo non significa mettere le protezioni ogni metro ovunque. L’attenzione per ridurre al minimo i rischi, va posto sulle prime protezioni, che dovrebbero evitare l’arrivo a terra dell’arrampicatore che cade. Poi come qualcuno ha scritto, la chiodatura deve seguire la via, la sua logica e può avere anche run-out impegnativi, se questi comportano eventuali voli lunghi ma senza il rischio di arrivare a terra o di andare a sbattere si cengie.
Nicola Tondini